Il passato non è il mio presente. ” Di G. D’Angelo”

Il passato non è il mio presente. ” Di G. D’Angelo”

Il riscatto di una società non può essere fondato sulle menzogne.

 

Sicuramente uno dei più striscianti e fastidiosi pregiudizi esistenti in Italia è quello contro i meridionali e i napoletani.

 

Pregiudizio alimentato, spesso, anche da chi è emigrato, non per ragioni strettamente economiche ma per capriccio. Colui che fa finta di non vedere che disfunzioni, disservizi, disuguaglianze, ingiustizie esistono al Sud come altrove. Sicuramente in forme diverse e, forse, meno appariscenti. Forme che l’osservatore meno attento fa finta di non vedere e che nasconde.

 

Tuttavia, l’avversare tale pregiudizio, dimostrare il proprio valore e rivendicare delle aspirazioni non può passare attraverso la menzogna di quello che non è stato.

 

Una di queste menzogne è la narrazione, sui social (e non nei libri di storia), delle bellezze e dei successi di quello che viene descritto come un magiregno: il Regno delle Due Sicilie.

 

Insomma, un pericoloso revisionismo tenta di far passare come l’EL Dorado quello che fu un Regno feudale, di concezione e mentalità, molto simile alla Russia zarista, di cui è arcinoto il destino e l’implosione.

 

Ebbene questo Regno è la nostra storia. Di questo Regno sarebbe opportuno valorizzare quanto di nobile e bello ci fu (la Reggia di Caserta, per esempio). Ma tale Stato non può essere millantato come il miglior mondo possibile, come un modello. Non lo era.

 

Credo sia opportuno fare chiarezza e far capire perché le decantate magie sono affermazioni prive di ogni addentellato storico.

 

Partiamo dalla vicenda della Ferrovia. È vero, la Napoli-Portici fu la prima ferrovia d’Italia (1939 – 7 km). Ma a cosa serviva? Quale vantaggio ne ebbero le genti duo siciliane? Risposta: nessuno.

 

Si trattò a dire il vero di un’infrastruttura isolata e destinata essenzialmente non al servizio pubblico ma alle esigenze della corte borbonica («giocattolo del Re» l’ha definita Ernesto Galli della Loggia). Pochi anni dopo (1844) il Regno di Sardegna (prima dell’Unità) intraprese un ben più moderno e organico piano ferroviario. Alla vigilia dell’unificazione (1860) il Regno di Sardegna aveva 850 km di strade ferrate, contro 607 del Lombardo-Veneto, 323 del Granducato di Toscana, 132 dello Stato Pontificio e solo 99 del Regno delle Due Sicilie, alla pari con il piccolo ducato di Parma e Piacenza. La rete ferroviaria borbonica si limitava ai soli centri di Napoli, Capua, Caserta, Castellammare di Stabia, Mercato San Severino e Vietri sul Mare. Dopo soli nove anni di unità nazionale, nel 1870, il governo unitario aveva decuplicato la rete ferroviaria meridionale, estendendola al Sannio (Benevento) e attraverso esso al Molise (Termoli), a sua volta collegato con la costa adriatica settentrionale, alla Puglia (Foggia, Candela, Barletta, Taranto, Bari, Brindisi, Lecce, Maglie) e alla Calabria (Rossano, Cariati). Furono inoltre costruite le linee Reggio-Bianconovo in Calabria e Palermo-Lercara, Leonforte-Catania-Messina e Lentini-Catania. Per quanto riguarda la rete stradale, alla vigilia dell’Unità quella del Centro-Nord era stimata approssimativamente in 75.500 km rispetto ai 14.700 km del Regno delle Due Sicilie.

 

Insomma, la colpa dell’Unità è quella di non aver colmato le differenze. Differenze che già esistevano ed erano evidenti.

 

Anzi, diciamola tutta, i Borbone avevano progettato una rete ferroviaria che doveva attraversare gran parte del Regno, che però non vollero realizzare.

Nel regno di Ferdinando II, dopo la repressione del ’49, vi fu una riduzione drastica della costruzione di nuove strade ferrate, la cui realizzazione si infrangeva contro l’acuto scetticismo del re, che giudicò i collegamenti ferroviari strumento di propagazione delle idee rivoluzionarie e, quindi, elemento di rischio per la stabilità politica dello stato, dolorosamente ristabilita nel 1849. Sul punto si veda l’opera Raffaele de Cesare, storico pugliese e giornalista del Corriere della Sera, in «La fine di un regno» , pubblicato in tre volumi nel 1909 e poi in ristampa anastatica qualche anno fa.

 

Insomma, come oggi ancora accade, si rifiuta la modernità per meschini interessi egoistici e di conservazione di uno status quo. Meglio ignoranti, scollegati, che ribelli.

 

Questa è storia. Storia, che secondo gli insegnamenti di quei Napoletani che andrebbero celebrati e ricordati (Gian Battista Vico), si ripete e non ci insegna nulla.

 

Ne volete una: il Centro Direzionale. Napoli, negli anni 90, è stata l’unica città del Sud Europa ad avere grattacieli. Sicuramente è stata la prima. In virtù di questo primato, Napoli è una potenza economica? Perchè molti, troppi, emigrano? Perchè quel primato è ridotto in condizioni fatiscenti? Perchè non è decollata un economia legata al terziario? È sempre colpa di Torino o di Roma Ladrona?

 

Suvvia, siamo seri. L’Unità italiana ha avuto tanti limiti. Ma il Risorgimento ha avuto il merito di creare una grande nazione, agganciata all’Europa e all’Occidente più moderno, di cui è stata ed è protagonista.

 

L’Unità, peraltro, ha avuto, fra i tanti, il limite di esser stata condotta da forze aristocratiche e reazionarie, che hanno privilegiato gli interessi di pochi a discapito di molti. Ma questa è un’altra storia. Una storia della mentalità, che è meglio non raccontare perché a molti di noi potrebbe non piacere.

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